Missioni: la testimonianza di Beatrice Bottaro dalla Colombia

Beatrice Bottaro è una giovane neolaureata in matematica originaria della Valtellina ma che ha studiato all’Università di Pavia. Ha condiviso un cammino di Fede all’interno della comunità dei “Servitori del Vangelo della Misericordia di Dio”, presente a Pavia, con cui ha anche condiviso una esperienza Missionaria a Brindisi nell’agosto 2021.

Questa esperienza ha favorito la sua scelta di vivere un anno di volontariato missionario dopo la laurea. Lei e la sua famiglia avevano conosciuto e sono entrati in amicizia con un sacerdote Colombiano che ha svolto un servizio pastorale in Valtellina. Con il suo aiuto Beatrice ha scelto la Colombia per il suo Servizio Missionario.

Su richiesta dell’Ufficio Missionario diocesano (coordinato da don Gian Paolo Sordi e dalla sua Equipe), la testimonianza di Beatrice viene pubblicata integralmente.

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Colombia, i cinque sensi e una Settimana Santa

Un anno fa mi ritrovavo il seguente compito di spagnolo: scrivi qualcosa sull’Italia. Adesso farò lo stesso ma parlando della Colombia.

Mi chiamo Beatrice, ho 25+ anni e mi trovo nella città di Yopal, nel departamento di Casanare, in Colombia. Dividerò questo racconto in diverse parti, le prime cinque legate ai cinque sensi.

Colombia è fare colazione da re come se fosse una cena, bevendo brodo di carne o pesce o mangiando qualcosa di fritto, è fermata obbligatoria a mangiare il postre de limón quando si fa un viaggio in macchina, è trovare le lasagne con dentro il pollo o il mascarpone italiano ma fatto negli Stati Uniti. È avere le allucinazioni quando vedo delle palline bianche che non sono mozzarelle ma uova sode di quaglia. È un pochino di nostalgia ricordando i panini con la mortadella durante i pranzi alla Nave con i compagni di università.

È andare a cena alla Curia per poter parlare italiano e mangiare pasta al pesto. È una pianta di caffè sul balcone, è un barattolino di Nutella da far assaggiare ai ragazzi del grupo júvenil. È un signore che in tasca ha sempre caramelle e dolcetti per tutti.

Colombia è stata mal di schiena i primi giorni, dovuto al concentrare il necessario per questo anno in una valigia e uno zaino pesantissimo, senza dimenticare a casa il passaporto, il visto, la lista dei vaccini, la Tachipirina miracolosa: ancora non mi va giù che qui le farmacie si chiamano “droguerias”. È la doccia fredda al mattino, perché l’acqua nelle cisterne sul tetto non ha avuto ancora modo di scaldarsi, è avere le mani tutte unte dopo aver mangiato la carne senza cubierto, è tornare a casa dopo essere stata al ristorante “Napoli” e non sentire la presenza del mio telefono. È umidità sulla pelle dopo che ha piovuto, è la gente che ti tocca mentre ti parla o che ti saluta abbracciandoti. È dormire sul chinchorro – una specie di amaca dalla quale è più difficile cadere – perché è più fresco.

Colombia è odore di pioggia appena prima di un acquazzone, o odore di fritto perché las empanadas sono quasi pronte. È odore di incenso durante l’ora Santa, un ricordo che mi ha portata indietro nel tempo, alla mia infanzia. Anche dall’altra parte del mondo è lo stesso. È profumo di limone sulle mani dopo aver preparato 28 dosi di dolce al limone (che non potevo non imparare a fare!) per i ragazzi della parrocchia.

Colombia è non aver più voglia di vedere riso o banane, Colombia è due occhietti neri di un geko che mi fissano dal soffitto quando vado a dormire, ma è anche occhi sopra le mascherine, occhi raramente chiari che brillano in contrasto con la pelle scura, occhi di chi capisce improvvisamente qualcosa di matematica, nonostante il mio itañol, occhi di chi riceve i pacchi alimentari, zampe di gallina date dai sorrisi, ma anche zampe di gallina galleggianti nella “sopa”.

Colombia è ascoltare, dopo due mesi di corso di italiano, i ragazzi che leggono ancora “achila” invece di “aquila”. Colombia è passare i primi cinque giorni senza capire niente di quello che la gente mi diceva, è musica alta in ogni angolo della strada, in ogni negozio, ogni ristorante. È cani randagi che iniziano ad abbaiare e non smettono più. È l’altoparlante del signore che passa sotto casa a vendere la papaya, gli avocadi, il pesce, il latte. È il lontano ricordo del silenzio. È ascoltare i ringraziamenti di chi dà valore al “tempo che ho deciso di impiegare qui ad insegnare quello che so”. È emozionarmi quando le ragazze che cantano in Chiesa intonano “Anima missionaria” dopo la comunione.

È spiritualità vissuta diversamente rispetto a quello che ho sempre visto. È un andare a messa in una chiesa luminosa e quasi all’aperto, dove ogni tanto vola un pettirosso (rosso per davvero). È un ritiro spirituale con canti e balli dove mi sono sentita letteralmente un pesce fuor d’acqua, ma per fortuna sono compresa da tutti quei preti che hanno passato degli anni in Italia.

È una Quaresima divisa in temi: decisione, trasfigurazione, speranza, accoglienza, perdono, servizio. È una Settimana Santa piena di messe e attività.

Una Domenica delle Palme con processione e messa, vestiti da apostoli e donne di Gerusalemme, con benedizione delle palme, dove ero al posto giusto.

Un lunedì, martedì, e mercoledì con riflessioni: lunedì per le donne, martedì per le coppie e mercoledì per le famiglie, con benedizione e con tanto di lacrime e famiglie improvvisate, dove mi sono sentita sorella, madre e figlia di tutti.

Un giovedì con messa alle 8 per anziani e nonni e subito dopo colazione con arepa al formaggio e succo, mentre alle 16 eucarestia con lavaggio dei piedi e canzone metà in italiano e metà in spagnolo, dove per ogni persona si pregava una cosa diversa. Nel mio caso abbiamo pregato per le persone lontane dalla loro terra, per gli immigrati, per le persone obbligate a lasciare casa.

Benedizione e consegna dei panini per tutte le persone presenti.

Un venerdì con Via Crucis per il quartiere alle 5 del mattino, per approfittare del silenzio, sotto la pioggia, sotto il sole, all’ombra degli alberi di mango, dove tra le stazioni sempre un gruppo diverso portava la croce, bambini, coppie, famiglie, donne… Alle 15 celebrazione con adorazione della croce dove mi sono proposta di disinfettare tra una persona e l’altra. Credo che, da parte mia, anche questa sia stata un’adorazione. Alle 19 Sermone delle Sette Parole, con tanto di smontaggio della Croce con donne vestite di nero, pronte a ricevere la corona e i chiodi e a riempire di fiori di carta la cassa.

Un sabato con i dolori di Maria e colazione alle 9 con tutte le persone della comunità che hanno aiutato. Alle 20 benedizione del fuoco e messa lunghissima dove persino io ho letto.

Infine domenica, forse il giorno più tranquillo, anche se ammetto che lontano da casa è stato strano: qui non si usa festeggiare in famiglia e non ci sono uova di cioccolato né colombe.

Colombia è semplicità, diversità, ma anche uguaglianza, è insegnare italiano a queste menti che da lontano sognano l’Europa, è spiegare matematica a queste menti che della matematica hanno proprio il rifiuto. In questo tutto in mondo è paese.

Ed infine è famiglia, è ospitalità dappertutto, è cuore, comunità, luce, disponibilità, curiosità, solidarietà.

Beatrice