Lectio su Gv 12,20-33 ai giovani – Chiesa del Sacro Cuore, Pavia

23-03-2021

Gv 12,12-33
20 Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. 21 Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. 22 Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23 Gesù rispose loro: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. 24 In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25  Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26 Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.  27 Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28  Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”. 29 La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. 30  Disse Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31 Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32 E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. 33  Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

È certamente un passo evangelico molto adatto a introdurci nelle ultime settimane di Quaresima, soprattutto nella Settimana Santa, dove i nostri occhi si volgeranno in particolare a Gesù, nel mistero della sua passione e della sua croce. Il capitolo 12 di Giovanni è, in certo modo, un ponte tra la prima parte del suo vangelo, “il libro dei segni”, e la seconda parte, “il libro dell’ora”, che si apre con la narrazione dell’ultima cena di Gesù e che culmina nel racconto della passione e morte e nelle manifestazioni del Risorto ai suoi. Sostiamo nella preghiera su tre parole che risuonano questa sera, ascoltando il Vangelo.

«Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21) È la domanda di questi pellegrini Greci, probabilmente “timorati di Dio”, saliti a Gerusalemme per la festa di Pasqua che desiderano vedere Gesù. È una domanda che può avere diverse risonanze in noi. Teniamo presente che nel linguaggio di Giovanni, “vedere” significa “conoscere, credere, entrare nel mistero”; come tale l’espressione può significare anche solo “prendere contatto”.
– Una domanda che dice curiosità, magari intellettuale, per la figura di Cristo: una situazione poco frequente, oggi, soprattutto tra voi giovani, se non in qualche caso.

– Una domanda che dice di più, un desiderio di conoscere da vicino il volto di Gesù: un tale desiderio nasce da un’iniziale esperienza di fede, o dall’incontro con qualche testimone, che sia un po’ per noi come Filippo e Andrea (già in Gv 1,35-51, Andrea conduce a Gesù suo fratello Simone e Filippo conduce Natanaèle).

– Una domanda a volte implicita, nascosta, anche sotto forma di contestazione verso la Chiesa: può accadere con alcuni vostri amici o compagni di corso e di collegio, o magari con alcuni docenti. È una provocazione a noi a essere testimoni trasparenti di Cristo: «Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di “parlare” di Cristo, ma in certo senso di farlo loro “vedere”. … La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto»
(Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 16).

Allora, cari amici, lasciamo che questa domanda risuoni in noi, chiediamoci se è vivo in noi questo desiderio di conoscere il volto di Gesù, il volto di Dio, di quel mistero che vibra nella realtà e di cui tutto è segno, sapendo che prima del nostro desiderio e della nostra ricerca, c’è Uno che ci già sta cercando, che ci ama e ci guarda, che vuole entrare in dialogo e in rapporto con il nostro cuore e la nostra esistenza, con la nostra sete di vita, di bellezza, di positività, di felicità che nulla riesce a spegnere e a cancellare!
Meditando questa parola del vangelo di Giovanni, mi è tornato alla mente un testo di San Giovanni Paolo II che aveva scelto come tema della Giornata Mondiale della Gioventù del 2004 proprio le parole dei pellegrini greci rivolte a Filippo: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Così scrive: «Colui che s’avvicina a Gesù con cuore libero da pregiudizi può giungere abbastanza agevolmente alla fede, perché è Gesù stesso ad averlo già visto e amato per primo. … Per vedere Gesù, occorre innanzitutto lasciarsi guardare da lui!
Cari giovani, lasciatevi guardare negli occhi da Gesù, perché cresca in voi il desiderio di vedere la Luce, di gustare lo splendore della Verità. Che ne siamo coscienti o no, Dio ci ha creati perché ci ama e affinché lo amassimo a nostra volta. Ecco il perché dell’insopprimibile nostalgia di Dio che l’uomo porta nel cuore: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27, 8).
Questo Volto – lo sappiamo – Dio ci ha rivelato in Gesù Cristo. Volete anche voi, cari giovani, contemplare la bellezza di questo Volto? … Non rispondete troppo in fretta. Innanzitutto, fate dentro di voi il silenzio. Lasciate emergere dal profondo del
cuore questo ardente desiderio di vedere Dio, un desiderio talvolta soffocato dai rumori del mondo e dalle seduzioni dei piaceri. Lasciate emergere questo desiderio e farete l’esperienza meravigliosa dell’incontro con Gesù. Il cristianesimo non è semplicemente una dottrina; è un incontro nella fede con Dio fattosi presente nella nostra storia con l’incarnazione di Gesù.
Cercate con ogni mezzo di rendere possibile questo incontro, guardando a Gesù che vi cerca appassionatamente. Cercatelo con gli occhi di carne attraverso gli avvenimenti della vita e nel volto degli altri; ma cercatelo anche con gli occhi dell’anima per mezzo della preghiera e della meditazione della Parola di Dio …» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la XIX Giornata Mondiale
della Gioventù, 22 febbraio 2004, 2-3).

«È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,23-24)
L’iniziale risposta di Gesù può sembrare strana e a prima vista, abbiamo l’impressione che Gesù non risponda. In effetti non c’è un dialogo diretto tra Cristo e questi Greci, non accade nessun incontro. Tuttavia, nelle parole di Gesù, c’è una risposta indiretta, nel senso che se vogliamo vedere Gesù, dobbiamo proprio contemplare lui come Figlio dell’uomo, nell’ora della sua
glorificazione.
Nel linguaggio di Giovanni l’ora allude alla croce e alla gloria, alla passione e alla risurrezione/esaltazione del Figlio: l’ora già intravista nel primo segno a Cana di Galilea. L’ora della glorificazione, opera del Padre, è l’ora della fecondità del seme, identificato con Cristo stesso nel suo mistero pasquale. Molto bella e suggestiva la lettura dell’immagine del seme che
muore in un commento di Ermes Ronchi: «Se il chicco di grano non muore resta solo, se muore produce molto frutto. Una delle frasi più  celebri e più difficili del Vangelo. Quel “se muore” fa peso sul cuore e oscura tutto il resto. Ma se ascolti la lezione del chicco, il senso si sposta; se osservi, vedi che il cuore del seme, il nucleo intimo e vivo da cui germoglierà la spiga, è il germe, e il grembo che lo avvolge è il suo nutrimento. Il chicco in realtà è un forziere di vita che lentamente si apre, un piccolo vulcano vivo da cui erompe, invece che lava, un piccolo miracolo verde. Nella terra ciò che accade non è la morte del seme (il seme marcito è sterile) ma un lavorio infaticabile e meraviglioso, una donazione continua e ininterrotta, vero dono di sé: la terra dona al chicco i suoi elementi minerali, il chicco offre al germe (e sono una cosa sola) se stesso in nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno. E quando il chicco ha dato tutto, il germe si lancia all’intorno con le sue radici affamate di
vita, si lancia verso l’alto con la punta fragile e potentissima delle sue foglioline. Allora il chicco muore sì, ma nel senso che la vita non gli è tolta ma trasformata in una forma di vita più evoluta e potente. “Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla” (Lao Tze), non striscia più, vola; muore alla vita di prima per continuare a vivere in una forma più
alta».
L’insistenza, o meglio la prospettiva dominante non è la “morte” del seme, ma il portare molto frutto, perché il Dio amante della vita gioisce di vigne rigogliose, di campi fertili, di esistenze che fioriscono, perdendosi: è il Dio della vita che donata, non trattenuta, genera vita! Rispettando il linguaggio semitico, che ama esprimersi per coppie opposte, come amare/odiare,
potremmo tradurre così le espressioni forti di Gesù: «Chi s’attacca alla propria vita la perde e chi non si attacca alla propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). È per un di più, non per un di meno, che si è disposti a fare dono della vita, come Gesù.
Carissimi amici, sì c’è un “morire” a se stessi, alle proprie immediate voglie, alla tendenza ad affermare il proprio “io” e a trattenere la vita per sé, per un proprio calcolo o progetto, ma questa “morte” è per una vita più piena, per il fiorire della nostra umanità nell’amore, che è dono libero e gratuito di sé, e non possesso dell’altro per il proprio piacere! È veramente il paradosso cristiano, che possiamo sperimentare e verificare: la vita solo se è data per qualcosa, meglio per Qualcuno
di grande, per Cristo, ideale e presenza suprema, non si perde, non si consuma vanamente: «Essere veramente liberi significa avere la forza di scegliere Colui per il quale siamo stati creati e accettare la sua signoria sulla nostra vita. Lo percepite nel fondo del vostro cuore: tutti i beni della terra, tutti i successi professionali, lo stesso amore umano che sognate, non potranno mai
pienamente soddisfare le vostre attese più intime e profonde. Solo l’incontro con Gesù potrà dare senso pieno alla vostra vita: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, ha scritto sant’Agostino (Confessioni, I, 1). Non vi lasciate distrarre in questa ricerca. Perseverate in essa, perché la posta in gioco è la vostra piena realizzazione e la vostra gioia. Gesù ci parla il linguaggio meraviglioso del dono di sé e dell’amore fino al sacrificio della propria vita. È un discorso facile? No, voi lo sapete! L’oblio di sé non è facile; esso distoglie dall’amore possessivo e narcisista per aprire l’uomo alla gioia dell’amore che si dona. Questa scuola eucaristica di libertà e di carità insegna a superare le emozioni superficiali per radicarsi fermamente in ciò che è vero e buono; libera dal ripiegamento su di sé per disporre ad aprirsi agli altri, insegna a passare
da un amore affettivo ad un amore effettivo» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la XIX Giornata Mondiale della Gioventù, 22 febbraio 2004, 4).

«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32)
Questa parola conclusiva di Gesù è un annuncio e una promessa. Già in Gv 3,14 e 8,28 si annuncia la figura del Figlio dell’uomo innalzato: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15); «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28).
In tutti i casi, il verbo utilizzato dall’evangelista, se a un primo livello, allude alla croce, sulla quale gli uomini innalzano Gesù, a un livello più profondo, evoca l’esaltazione/innalzamento/salita al cielo del Signore glorificato dal Padre. Attirare è in ordine al credere, al venire a Cristo, entrando in contatto con il suo mistero: mentre in Gv 6,44 è il Padre che attira, consentendo così l’accesso a Gesù e la fede in Lui (Gv 6,44: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato»; 6,65: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre»), qui è Cristo nel suo essere innalzato
davanti agli uomini che esercita una potente attrazione sui cuori, suscitando la fede in lui, come conoscenza amorosa e come relazione personale del credente con Cristo.
Questa è un’esperienza da vivere e da verificare, tante volte attestata nella vita dei santi: la contemplazione di Gesù innalzato sulla croce, lo sguardo del cuore posato su di lui diventa una strada di conoscenza e di amore. Ecco come e dove “vedere Gesù”, per crescere in una conoscenza saporosa di Lui, che trasforma il credente: a una simile esperienza ogni anno la Chiesa c’invita, nei giorni della Settimana Santa e qui sta la grazia propria della liturgia del Triduo Pasquale, con la ricchezza della Parola e dei gesti rituali che possiamo vivere e celebrare. Lasciarci attirare da Cristo, assecondare la bellezza che intravediamo nel volto di amici e di testimoni, imparare a stare con Lui, nel silenzio dell’adorazione eucaristica, nella meditazione del
Vangelo, nella preghiera anche semplice e spontanea, e educarci a vivere la vita come un dono, un dono gratuito che riceviamo e che doniamo, nel servizio, nella condivisione di chi è in povertà, nell’attenzione a chi incontriamo: così, amici, il nostro cuore vive “alla grande” e respira, affronta le fatiche e le limitazioni di questo tempo senza lasciarsi spegnere, con realismo e creatività, con pazienza e passione, e in questo modo noi possiamo essere testimoni, voi potete essere testimoni tra i vostri amici e nei vostri ambienti: «I vostri contemporanei aspettano da voi che siate i testimoni di Colui che avete incontrato e che vi
fa vivere. Nelle realtà della vita quotidiana, divenite testimoni intrepidi dell’amore più forte della morte. Tocca a voi raccogliere questa sfida! Mettete i vostri talenti e il vostro ardore giovanile al servizio dell’annuncio della Buona Novella. Siate gli amici entusiasti di Gesù che presentano il Signore a quanti desiderano vederlo, soprattutto a quanti sono da lui più lontani. Filippo e
Andrea hanno condotto quei “greci” a Gesù: Dio si serve dell’amicizia umana per condurre i cuori alla sorgente della divina carità. Sentitevi responsabili dell’evangelizzazione dei vostri amici e di tutti i vostri coetanei» » (Giovanni Paolo II, Messaggio per la XIX Giornata Mondiale della Gioventù, 22 febbraio 2004, 7).
Permettete, carissimi amici, che concluda questa mia conversazione con voi, con le stesse parole che San Giovanni Paolo disse alla fine dell’incontro con i giovani della Diocesi di Roma, nella celebrazione della Giornata Mondiale della Gioventù di quell’anno, 2004, che si svolgeva solo a livello diocesano. Mi sembrano parole vere e attuali anche per noi: sono passati altri anni, 17 anni da allora, come nel 2004 erano trascorsi 20 anni dal primo Giubileo dei giovani, eppure pur nei grandi cambiamenti culturali, sociali, di vita e di costume, c’è qualcosa che non cambia, c’è il cuore, mio e vostro, sempre assetato di felicità, di verità e di bellezza, e c’è Cristo presenza capace di attirare a sé il cuore degli uomini e delle donne, anche nel 2021, giovani e meno giovani, uno a uno. È proprio il tempo della persona, dell’incontro che Cristo può realizzare con ciascuno di noi:
«Come sono cambiati i giovani di oggi da quelli di venti anni fa! Come è cambiato il contesto culturale e sociale nel quale viviamo! Ma Cristo no, Lui non è cambiato! Lui è il Redentore dell’uomo ieri, oggi e sempre! Credete in Gesù, contemplate il suo Volto di Signore crocifisso e risorto! Quel Volto che tanti vogliono vedere, ma che spesso è velato dalla nostra scarsa passione per il Vangelo e dal nostro peccato!
O Gesù amato, o Gesù cercato, svelaci il tuo Volto di luce e di perdono! Guardaci, rinnovaci, inviaci!
Troppi giovani Ti attendono e, se non Ti vedranno, non saranno in grado di vivere la loro vocazione, non saranno capaci di vivere la vita per Te e con Te, per rinnovare il mondo sotto il tuo sguardo, rivolto al Padre e nello stesso tempo alla nostra povera umanità» (Giovanni Paolo II, Ai giovani della Diocesi di Roma, 1° aprile 2004).