L’omelia del vescovo Sanguineti per il solenne pontificale di S.Siro

Eccellenze Reverendissime, carissimo vescovo Giovanni e carissimo vescovo Andrea,
Cari confratelli nel sacerdozio, cari diaconi, cari consacrati e consacrate nel Signore,
Distinte Autorità civili e militari,
Stimati rappresentanti di associazioni e realtà sociali, che fanno ricca questa città e questa diocesi,
Carissimi fratelli e sorelle, membri e figli della Chiesa che è in Pavia,

Con trepidazione e con gioia, presiedo oggi, per la prima volta come vescovo di questa Chiesa, questa solenne concelebrazione in onore di San Siro, primo vescovo di Pavia e patrono della città e di tutta la nostra Diocesi: permettete che rivolga un saluto particolarmente fraterno e cordiale a Sua Eccellenza Mons. Giovanni Giudici, mio immediato predecessore, pastore della nostra comunità diocesana per dodici anni. Rinnovo qui la mia stima e le mie congratulazioni per la Benemerenza che gli è stata riconosciuta e consegnata questa mattina, segno della gratitudine di tutta la nostra città per la sua persona e per il suo servizio operoso tra noi. Insieme al Vescovo Giovanni, saluto Sua Eccellenza Mons. Andrea Migliavacca, vescovo di San Miniato: tutti lo chiamiamo più familiarmente “Don Andrea” e proprio un anno fa, in questa cattedrale, riceveva per le mani del Vescovo Giovanni il dono della consacrazione episcopale. Questa sera lo ringraziamo di essere con noi, in questo primo anniversario della sua ordinazione a vescovo, e su di lui e sulla Chiesa affidata alle sue cure, invochiamo una rinnovata effusione dello Spirito. Il mio saluto fraterno va anche a Don Savino D’Amelio, Parroco di Amatrice, uno dei centri più colpiti dal terremoto di fine agosto: lo ringrazio della sua presenza tra noi, segno di un legame che sta nascendo tra la nostra chiesa di Pavia, attraverso la Caritas diocesana, nella persona di Don Dario Crotti, che è già stato in visita a queste comunità. Come piccolo segno di aiuto e di solidarietà, ricordo che le offerte donate per il “Pane di San Siro” saranno totalmente devolute a favore della comunità di Amatrice. Celebrare la festa del primo vescovo di Pavia, divenuto patrono della nostra diocesi, è innanzitutto occasione per fare memoria grata di un cammino lungo, di secoli, che ha permesso al cristianesimo di essere presente nelle nostra terra, fecondando la vita e l’ambiente delle nostre città e della campagna circostante. Non si tratta di un passato sepolto, perché il seme della fede cristiana, che San Siro ha predicato e ha servito, nonostante i profondi cambiamenti culturali e sociali, continua a portare frutto. Sappiamo che San Siro, come primo pastore, è vissuto nel periodo immediatamente successivo all’Editto di Milano (313), che ha dato inizio a un nuovo corso nella relazione tra l’Impero romano e la Chiesa. Pur venendo meno le persecuzioni, la Chiesa di allora si è trovata ad affrontare il pericolo rappresentato da alcune eresie, prima fra tutte, l’arianesimo che toccava il mistero dell’Incarnazione e svuotava l’identità di Cristo, Logos e Figlio eterno del Padre, fatto uomo per la nostra salvezza. Inoltre, il rilievo che il cristianesimo andava assumendo a livello sociale e istituzionale, portava il rischio di una caduta di fervore e d’impegno nella vita dei singoli credenti, indebolendo dall’interno la Chiesa stessa. Ecco San Siro, di cui abbiamo scarne notizie storiche, ha certamente dato solidità alla comunità cristiana, che era già presente e parzialmente organizzata prima del suo episcopato, pur mancando di un vescovo proprio: proprio quest’anno ricorreva il 1700° anniversario della nascita di San Martino di Tours, e nella vita del Santo, scritta da Sulpicio Severo dopo la morte di Martino (396/397), si racconta che Martino, quando aveva dieci anni e abitava con la sua famiglia a Ticunum, l’antica Pavia, venne in contatto con una comunità cristiana, che si raccoglieva in qualche Domus Ecclesia. A motivo di questo legame tra Pavia e il giovane Martino, nello scorso mese di novembre, con una ventina di sacerdoti ci siamo recati in pellegrinaggio a Tours per partecipare alle feste conclusive di questo Anno martiniano, e rinnovare il vincolo che lega la nostra Chiesa, dalle sue origini, al grande Santo divenuto poi vescovo a Tours in Francia. Fa impressione, carissimi fratelli e sorelle, pensare che noi oggi siamo gli eredi di una lunga storia, iniziata secoli fa, sulle rive del nostro Ticino, e possiamo immaginare che San Siro, nella sua qualità di primo vescovo, si sia dedicato a consolidare la giovane Chiesa a lui affidata. Davvero in lui si sono realizzate le parole che San Paolo, salutando a Mileto gli anziani della Chiesa di Efeso, consegnava loro come suo testamento: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. (…) Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia …» (At 20,28.32). Come vescovo, Siro ha vegliato, ha guidato il gregge dei credenti, li ha difesi dai «lupi rapaci», li ha affidati al Signore e alla potenza della Parola, da lui annunciata. San Siro, però, nel suo essere pastore, è stato anche un evangelizzatore: non sappiamo da dove provenisse, è probabile che, almeno inizialmente, appartenesse alla schiera dei pastori che andavano a evangelizzare le terre dell’Italia del nord, ancora fortemente pagane. Certamente qui a Pavia, ha trovato ancora una viva presenza di culti pagani, e ha sostenuto un’attività di annuncio, favorendo la conversione di molti alla novità della fede cristiana. Per questo motivo, la prima lettura applica a San Siro, le parole rivolte da Dio ad Abràm, chiamato a uscire dalla sua terra, pellegrino della fede, e il passo evangelico racchiude le ultime consegne del Risorto agli Undici apostoli, chiamati alla missione: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16). In realtà non esiste Chiesa senza missione, non esiste cristianesimo senza la passione della testimonianza e dell’annuncio a «ogni creatura», perché, chi ha incontrato il Signore Gesù e ha scoperto la gioia del Vangelo, non può tenere per sé questo bene, lo deve condividere! Così ha fatto San Siro con i nostri padri, che abitavano in questa terra, ed è grazie a lui e a coloro che prima e dopo di lui hanno speso la vita nell’annuncio del Vangelo, che oggi esiste una comunità di credenti, che, insieme ai loro fratelli uomini, desiderano e vogliono portare il loro contributo al bene e alla crescita della nostra città e del nostro territorio. Ora, è una coincidenza bella che quest’anno, in occasione della festa di San Siro, io possa offrire a questa Chiesa, a questa amata città di Pavia la mia prima lettera pastorale che ha come titolo «Maestro dove dimori?» (Gv 1,38): incontrare Cristo oggi. In essa, propongo un percorso in tre passi: all’inizio, per rispondere alla domanda «Da dove partire?», per proseguire il cammino della nostra Chiesa, cerco d’ascoltare ciò che il Signore ci chiede, prestando attenzione, al fatto imponente della voce degli ultimi Papi, da San Giovanni Paolo II a Francesco, e del cammino della Chiesa italiana, che appaiono sempre più rivolti a riscoprire il cuore della fede nella persona di Gesù Cristo, da incontrare e da annunciare. Al centro della lettera, invito a rileggere il racconto dell’incontro di Gesù con i primi discepoli (cfr. Gv 1,35-51), un racconto che non solo racchiude la memoria dell’inizio, ma soprattutto descrive come nasce la vita cristiana. Oggi come duemila anni fa, si diventa cristiani e si rimane cristiani, o si riscopre l’essere cristiani per l’incontro con una Presenza, capace di destare il cuore e di suscitare una speranza: la presenza di Cristo, con il quale si può vivere una familiarità, partecipando alla vita della comunità cristiana, fatta di volti, di gesti, di parole, di rapporti. Infine, nell’ultima parte della lettera, provo a indicare come e dove possiamo vivere oggi l’incontro con Cristo: nella Chiesa che ha il volto concreto e prossimo di una comunità in cui camminare; nella Parola di Dio che si offre a noi nella Scrittura, come una parola viva, da ascoltare, da accogliere, da vivere; nei sacramenti, in particolare nell’Eucaristia, reale presenza del Signore, da celebrare, da ricevere, da adorare; nel segno dei nostri fratelli poveri, sofferenti, feriti o emarginati, con i quali Gesù s’identifica e nei quali chiede d’essere accolto e servito, attraverso la riscoperta delle opere di misericordia, corporale e spirituale, riproposte dal Papa lungo l’Anno Santo appena celebrato. Rispetto a queste differenti forme di vivere oggi l’incontro con Cristo, forme che sono in relazione tra loro e s’implicano vicendevolmente, chiedo alle nostre comunità – parrocchie, unità pastorali, associazioni e movimenti laicali – di verificarsi, e suggerisco, anche in forma di domanda, scelte che ci aiutino a vivere la fede come contemporaneità con Cristo, nella vita della Chiesa e nel cammino, ricco di sfide e di contraddizioni, del nostro tempo in cui siamo immersi. Sono profondamente convinto che una Chiesa che ritrova la passione e il gusto dell’essenziale, che rimette al centro Cristo e il suo Vangelo, è una Chiesa che si apre al mondo, che vive l’impeto della testimonianza, che non ha paura di servire, nello stesso tempo, Cristo Signore e l’uomo! È una Chiesa che non sente estraneo nulla di ciò che è autenticamente umano, e che mentre, con umile fierezza, testimonia la sua fede, è tutta desiderosa di valorizzare ogni frammento di bontà, di verità e di bellezza che c’è in ogni uomo, in ogni esperienza umana e sociale. Come ho scritto nell’editoriale pubblicato sul settimanale diocesano Il Ticino – che ha appena celebrato 125 anni di vita: «È l’ora della missione! Il nostro tempo ci chiede di non tenere nascosta la luce del Vangelo, e quanto più ci saranno uomini e donne che si lasciano toccare e commuovere dalla presenza vivente di Gesù, tanto più rinascerà l’impeto della testimonianza, un desiderio umile e indomabile di far conoscere agli altri la bellezza, la verità e la gioia, donate a noi in Cristo». San Siro è stato un pastore evangelizzatore, e segna così il cammino a cui siamo chiamati come comunità cristiana, che vive in questa terra, volendo comunicare, nella libertà, la bellezza e la gioia della fede cristiana, e allo stesso tempo, volendo collaborare con tutti coloro che si prendono a cuore il bene autentico degli uomini e delle donne, delle famiglie e delle realtà che arricchiscono il vissuto sociale, civile e culturale di una città e di un territorio, come il nostro. Permettetemi ancora una parola: secondo una tradizione leggendaria, San Siro sarebbe il bambino che ha portato a Gesù i cinque pani e i due pesci. Questi, messi nelle mani del Signore, si sono prodigiosamente moltiplicati e hanno potuto sfamare una folla di più di cinquemila persone. Ora, andando al di là del carattere agiografico di questa tradizione, c’è un significato che possiamo raccogliere dall’immagine del piccolo Siro, che offre il poco che ha a Cristo, perché molti siano soccorsi nel loro bisogno: il suo gesto è un gesto di generosità e di condivisione audace, che sembra sfidare l’impossibile. Eppure proprio quel poco condiviso diventa pane per tutti! Qui, carissimi fratelli e sorelle, stimati rappresentanti della vita politica, economica e sociale del nostro territorio, possiamo raccogliere, in senso più ampio, l’invito a mettere insieme, ciascuno, il poco che abbiamo, poco in rapporto alle tante necessità delle persone e delle famiglie, perché solo ciò è che condiviso può crescere e quasi moltiplicarsi, come sorgente di bene per molti.In particolare, io colgo l’occasione solenne della nostra festa di San Siro, per richiamare l’attenzione di tutti sul “pane” che troppe volte è poco o viene a mancare nella vita di tante persone, giovani e non solo giovani: mi riferisco al “pane” del lavoro, oggi così spesso scarso e difficile a essere trovato o mantenuto. Più volte Papa Francesco ha alzato la sua voce di fronte al dramma della precarietà e della disoccupazione, parlando dei giovani senza lavoro, come vittime di quella «cultura dello scarto» che tende a lasciare ai margini i più deboli, a cancellarli dalla vista e dalla stessa esistenza: gli “scartati” possono essere i bambini non nati, gli adolescenti e i giovani che abbandonano la scuola e non cercano più nulla, i profughi e gli stranieri respinti o emarginati, i disoccupati, gli anziani abbandonati, trascurati, o mal curati, se non addirittura lasciati morire, accelerando il loro decesso! Come Chiesa, non abbiamo soluzioni tecniche di fronte al problema del lavoro, la cui mancanza non crea soltanto difficoltà economiche, ma priva la persona della sua dignità, e rende fragile la vita di tante famiglie, che non sanno come arrivare alla fine del mese, e talvolta entrano in un tunnel, dove avanza solo il buio della miseria e della degradazione umana e morale, dove padri o madri diventano vittime dell’illusione del gioco d’azzardo, o degli usurai senza scrupoli. Se vogliamo il bene di questa bella città, se vogliamo il bene della nostra gente, non possiamo rassegnarci a questa situazione, dobbiamo mettere in campo tutte le energie e le risorse che abbiamo, per dare un lavoro dignitoso a tutti, per non lasciare sole queste persone e queste famiglie, che, in breve tempo, si ritrovano nel cerchio della povertà estrema e della marginalità sociale. Proprio perché vogliamo essere una Chiesa che parte da Cristo, Dio con noi, non possiamo chiudere gli occhi e far finta di non vedere la sofferenza che nasce dalla privazione del lavoro. Pertanto, nel desiderio di essere fedeli all’eredità di San Siro e alla forza umanizzante del Vangelo, mi permetto di rivolgere un appello perché tutti noi prendiamo a cuore la realtà del lavoro, che per troppi è un bene raro, e la cui mancanza genera condizioni di vera povertà! Ognuno può fare la sua parte, secondo le proprie responsabilità e competenze, secondo le proprie possibilità: l’essenziale è renderci sensibili a questo elemento decisivo della vita umana, e metterci insieme. È un appello che rivolgo alla comunità cristiana, con l’impegno delle nostre parrocchie, della Caritas e della pastorale sociale, che in questi anni, in sinergia con rappresentanti dell’attività economica e sociale del nostro territorio, sta promuovendo degli strumenti, certo limitati, ma utili, iniziative da valorizzare di più, anche nelle nostre parrocchie, come Il Laboratorio di Nazaret o Il Compralavoro. Proprio nel giorno di San Siro del 2013, abbiamo lanciato il Compralavoro che si è declinato in sette comunità parrocchiali pilota, dando lavoro sicuro, formato e non assistenziale, con una verifica pastorale delle possibilità di aiutare le famiglie e i lavoratori più deboli, con una piccola spesa per un grande segno di solidarietà della comunità ecclesiale. Ripartiamo da qui con la possibilità di allargare il Compralavoro con un’alleanza di tante altre parrocchie: è un’iniziativa che favorisce la crescita di una nuova solidarietà all’interno delle nostre comunità cristiane. In questo momento, mi permetto di allargare il mio appello alle istituzioni, alle forze vive della società e dell’economia (imprenditori, sindacati, cooperative, banche e fondazioni, associazioni libere): mi auguro spero che troveremo modi concreti, strumenti di collegamento e di progettualità comune, per fare rete, per promuovere iniziative e collaborazioni, per il lavoro, per il bene dei nostri giovani e delle nostre famiglie. Chiediamo al Signore, per intercessione di San Siro, che la nostra Chiesa cammini sempre più nella lieta certezza della fede e nella testimonianza umile e forte del Vangelo, e che, insieme con tutti coloro che hanno a cuore il bene di ogni persona, possa servire l’uomo, con la stessa passione con cui serve e ama Cristo suo Signore. Amen

+ Mons. Corrado Sanguineti

Vescovo di Pavia