per dare vita alla comunità umana e cristiana. Solo nell’umiltà che riconosce i doni dell’altro e nella maturità umana che sa fare dono di sé possiamo ritrovare il senso del bene comune e le strade per realizzarlo. Certo la fede ci aiuta a riconoscere che è possibile, anzi indispensabile guardare alla realizzazione del progetto individuale all’interno di un più ampio progetto divino. Come è stato detto da un martire e profeta del nostro tempo, Christian de Chergé, priore dei Trappisti di Thibirine: “… la gloria di Cristo, il frutto della sua passione, è il dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze” (Dal suo testamento).
Nei “cinquanta giorni” della Pentecoste la liturgia ci ha immersi nella realtà della Chiesa nascente. San Luca, prolungando il suo Vangelo, ci ha narrato i prima trenta anni della vita della Chiesa, fin verso l’anno 63 dopo Cristo. E’ la Chiesa che nasce a Gerusalemme e si espande successivamente verso la Samaria e la Siria; infine il vangelo si diffonde, per l’attività missionaria di Paolo, in tutto il territorio del Medio Oriente e della Grecia.
Uomini e donne, di cui abbiamo conosciuto i nomi e le storie, hanno vissuto questa straordinaria epopea missionaria. Ma dietro agli «atti» degli apostoli, vi è un solo autore della storia e della corsa dei singoli e delle comunità: lo Spirito del Signore risorto. Egli, il risorto, il Vivente, è colui che sta glorioso alla destra del Padre e che agisce con potenza nella Chiesa per opera dello Spirito. Il suo dinamismo muove persone e comunità, situazioni e condizioni storiche; la sua energia è dovunque e anche oggi è all’opera.
Questa sera vogliamo domandarci:
– che cosa significa oggi l’insegnamento della Chiesa dopo la Pasqua? Come quel tempo dopo la Risurrezione del Signore costituisce uno stimolo e un modello per la nostra vita di credenti?
– In particolare, come il nostro agire nella società e nella Chiesa possa costituire una forza di cambiamento nella vita e nella mentalità delle persone? Come l’impegno per la costruzione della comunità cristiana contribuisce alla positiva realizzazione della comunità civile?
Il gruppo dei discepoli del Signore si identificava, come osservavano i testimoni ricordati dagli stessi Atti degli Apostoli, per la capacità di vivere una comunione di intenti, ma anche di beni materiali e immateriali. Queste modalità nuove di formare la comunità erano fondate sulla testimonianza costituita dalla vita stessa del Signore. Vogliamo allora riflettere questa sera a proposito di una spina della corona che ha torturato il nostro Signore nella lunga agonia: la difficoltà e gli ostacoli che si frappongono alla vita fraterna nella comunità ecclesiale e nella vita civile. Facciamo riferimento al testo letto della lettera di Paolo agli Efesini, nel quale l’Apostolo spiega come il Vangelo di Gesù costituisce un invito e una forza per costruire una vera fraternità.
Punto di partenza è la chiamata del Signore che mette la persona in contatto con Dio il quale con la sua benedizione, fa sorgere profonda fiducia in se stessi e nella possibilità di una vita libera e piena, ricca di attese e di realizzazioni positive perché profondamente connessa con l’esistenza degli altri.
Paolo si sofferma sull’opera dello Spirito che consente di vivere con Cristo e come Lui in quella mitezza, pazienza, accoglienza reciproca che fondano la comunione di vita cristiana. Nell’esperienza di fraternità vissuta nella comunità cristiana si attua una reciprocità di servizio animata dai doni dello Spirito. Arricchiti ed educati da questa esperienza, i cristiani sanno di essere chiamati a una particolare testimonianza: costruire “la città dell’uomo a misura dell’uomo” (Lazzati, 1984). Si tratta di un amore per il prossimo che consiste nell’essere sale e lievito nella società, e che per il cristiano sta insieme ed ha la medesima importanza dell’annuncio della parola e dell’esercizio di amore concreto e quotidiano per il prossimo. Così riconosciamo il Figlio di Dio come origine del vivere e dell’agire di ogni uomo, del suo progredire verso il progetto del Padre, del senso vero e dell’importanza che ha l’unità del corpo della Chiesa.
Paolo sottolinea come la chiamata alla comunione nella Chiesa abbia aperto nuova speranza nel cuore di chi ha accettato la vocazione cristiana. Vi è infatti un futuro cui si guarda, che non è solo l’ultimo orizzonte della vita eterna, ma anche la partecipazione alla costruzione oggi di una ricchezza di rapporti umani. Il servizio vicendevole alla comunità che si attua per il dono di ciascuno “..alcuni apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e maestri..”, consente di giungere ad una maturità umana e cristiana, che Paolo descrive come: “…la conoscenza del Figlio di Dio, ..l’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”.
Pur nella consapevolezza della propria inadeguatezza, la coscienza della chiamata del Signore sollecita un esercizio della responsabilità personale dentro la molteplicità dei rapporti sociali. L’uomo perfetto di cui ci parla Paolo è sottratto alla condizione del fanciullo che non sa che cosa scegliere, che è condotto qua e là dalle sue emozioni. Essere insieme, vivere l’unità che nasce dalla fede e dal dono dello Spirito, ci sottrae alla confusione, alla dispersione, e conduce ciascuno ad operare per il bene comune.
Una comunità cristiana che vive così, diviene annuncio dell’unità del genere umano e sostiene i credenti nell’operare con tutti gli uomini di buona volontà perché si realizzi il disegno di Dio sulla storia degli uomini. Dice infatti il Concilio Ecumenico Vaticano II: «E siccome la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, ..» la Chiesa parla di se stessa e di Cristo, per presentare il disegno di Dio ad ogni libera coscienza.
Questa prospettiva che indica una dimensione di autenticità per tutta l’esperienza umana, sollecita anche la verifica sull’esistenza reale di rapporti significativi di solidarietà tra le persone nella comunità cristiana, nella società e nella vita.
Non sono pochi i segnali che ci sollecitano a porre attenzione alle luci e alle ombre che segnano oggi la nostra esistenza. I nuovi mezzi di comunicazione e le condizioni di vita contemporanee hanno fornito lo spunto per iniziative di giustizia e per la crescita di istanze di uguaglianza ma, nello stesso tempo, rendono anche possibile stabilire rapporti di intimità con i ‘lontani’, dimenticando il rapporto con i ‘vicini’ (Bauman 2002). Crescono le condizioni di un disagio che prende forme diverse e allarmanti e che, pur riguardando categorie e gruppi sociali differenti, manifesta un tratto comune: quello della solitudine, dell’incapacità di intravvedere nell’altro la mano fraterna alla quale si può e si deve ricorrere.
Vogliamo dunque dedicare la nostra preghiera nella festa delle Sante Spine del 2012, proprio a questa ferita dolente inflitta a Cristo: la carenza di solidarietà nel nostro vivere sociale e il conseguente sentimento di solitudine che segna la vita di molte, troppe persone nella nostra società.
E’ evidente infatti la condizione di solitudine che di fatto sperimenta chi affida il suo destino al gioco e alla scommessa, fino a diventarne schiavo, disperdendo sul piano materiale e spesso anche su quello degli affetti, ciò che ha costruito con fatica nel corso della propria vita. Sono altrettanto soli i ragazzi e le ragazze che cercano di allontanare o di scordare la loro solitudine affogandola nell’alcol o nell’abuso di sostanze stupefacenti, per poi ritrovarsi ancora più soli quando vengono meno gli effetti di queste sostanze. E’ solo chi subisce violenza, lo è nel momento stesso in cui è vittima della violenza e della sopraffazione, senza che nessuno intervenga in suo aiuto e lo è ancor più se subisce questa violenza da parte di un padre, un marito, un compagno, un figlio, un amico, qualcuno da cui si attendeva amore e rispetto. Sono drammaticamente soli coloro i quali di fronte a una difficoltà economica, alla perdita del lavoro, all’abbandono della persona amata, ad un presunto atto di ingiustizia, commettono azioni estreme contro loro stessi, nel drammatico intento di rendere visibile a tutti la loro disperazione, la loro rabbia e la loro impotenza.
Può sembrare irragionevole parlare di isolamento in un mondo caratterizzato da un’impressionante e crescente facilità di comunicazione e di connessione grazie alle tecnologie moderne. Nell’era di Internet e di Facebook i nostri ragazzi hanno l’illusione di comunicare con il mondo intero, di avere centinaia di contatti e dunque di amici. E’ sempre più difficile però per loro guardarsi negli occhi, parlarsi, imparare a esprimere le loro emozioni, le loro gioie e le loro difficoltà senza nascondersi dietro a un video o a una tastiera. La tecnologia ha reso sempre meno necessarie le interazioni individuali, tanto nella sfera privata quanto in quella sociale ed economica. Ha esteso all’infinito il numero di interazioni potenzialmente possibili a nostra disposizione, riducendone drasticamente i tempi e i costi associati. Ma sta compromettendo seriamente la nostra capacità di entrare in relazione con gli altri, altera o annulla le emozioni su cui si reggono le relazioni personali, privilegiando la quantità di relazioni virtuali e superficiali rispetto alla qualità delle relazioni genuine e profonde.
Può sembrare egualmente inappropriato parlare di solitudine avendo in mente i luoghi in cui si svolge la nostra vita, nelle nostre città e nelle nostre strade, nei centri commerciali affollati. Spazi tanto più faticosi o inaccessibili per chi è più vulnerabile perché anziano, o perché povero o emarginato. Spazi in cui le nostre vite si sfiorano senza incontrarsi.
E’ proprio dalla difficoltà di instaurare relazioni vere e profonde con le persone che ci sono accanto e dalla mancanza di senso di appartenenza a una comunità, di fiducia nel futuro e di condivisione di un progetto comune che trovano spesso origine le nostre solitudini. Ci dobbiamo allora domandare come siamo giunti a questo punto, quali aiuti dobbiamo invocare dal Signore, le cui sofferenze per noi ricordiamo in questi Vespri e nel cammino di fede che percorriamo per le vie della Città, quali conversioni e quali opere dobbiamo promuovere nella nostra vita.
Un primo aspetto da tenere presente è l’enfasi data alla visione utilitarista che ha caratterizzato lo sviluppo delle nostre società moderne. Se è bene solo ciò che è utile, allora prende forma nella testa e nella coscienza delle persone una rappresentazione prevalentemente individualistica dell’esistenza. La supremazia del consumo e l’importanza attribuita ai bisogni materiali, la logica del successo e la rilevanza dell’apparire hanno forgiato i modelli ideali vagheggiati da tanti. Così facendo abbiamo posto in secondo piano i bisogni fondamentali della persona negando la profonda esigenza che ciascuno di noi ha degli altri, abbiamo tolto valore al dono, all’amore, all’amicizia e alla solidarietà, beni tanto più preziosi proprio perché gratuiti. Da tutto ciò è apparso con chiarezza che quanto ci è essenziale nel nostro vivere, non è oggetto di compravendita o di scambio. E’ il Vangelo che mostra la sua paradossale verità: solo nel dono e nella gratuità possederai quella vita che ti è stata data!
Alla condizione di fatica che abbiamo descritta, viene ad aggiungersi il grave momento di crisi economica. Così le difficoltà reali che molte famiglie incontrano nel riuscire a soddisfare i propri bisogni materiali comportano due ragioni di aggravio: vi sono le frustrazioni che derivano dall’impossibilità di far fronte se non per sé, per i propri figli, alle sollecitazioni al consumo a cui continuiamo ad essere quotidianamente sottoposti e vi sono le difficoltà personali, non meno gravi e profonde, determinate dall’assenza di relazioni, dal senso di smarrimento e di solitudine di chi, vedendo venir meno la propria sicurezza economica e il proprio benessere materiale, non sa dove cercare un sostegno a cui aggrapparsi.
Un secondo aspetto va tenuto presente nel considerare l’incidenza della solitudine delle persone nella situazione di disagio sociale che stiamo vivendo. La crisi economica ha certamente contribuito a rafforzare il senso di sfiducia verso il futuro senza però esserne la causa determinante. Già da tempo ormai, soprattutto le generazioni più giovani, guardano al futuro non più come una promessa ma come una minaccia (Benasayag, Schmit, “L’epoca delle passioni tristi”, 2005). Alle generazioni passate veniva trasmesso il messaggio e l’insegnamento che l’impegno personale, nello studio o nel lavoro, avrebbe condotto alla realizzazione delle proprie aspettative, ad un futuro da guardare con speranza e da costruire con fiducia. Non è forse stato così sempre e per tutti, ma certamente per molti e per un lungo lasso di tempo, la realizzazione e la costruzione del futuro è stata possibile.
Per i giovani di oggi il futuro non sembra aver molto da promettere o da riservare, né l’impegno e le capacità personali sembrano bastare. Ma dobbiamo chiederci se non abbiamo forse dimenticato o rinunciato troppo in fretta a trasferire ai nostri giovani un insegnamento relativo al significato della collaborazione e della solidarietà. Troppo spesso, sollecitati dal modello del successo solitario e della cura dell’individualità, abbiamo tralasciato di sottolineare l’importanza che ha nella costruzione del proprio progetto personale e nella realizzazione di sé, il rapporto di solidarietà e di collaborazione con gli altri.
Quali speranze e quali azioni per ottenere la guarigione dalla spina della mancanza di solidarietà e di partecipazione
Uscire dalla condizione di solitudine e di mancanza di fiducia e di speranza nel futuro richiede un impegno individuale e un progetto comune. Non può bastare lo sforzo individuale. Occorre il concorso dell’azione pubblica proprio perché le istituzioni, che si basano sul consenso dei cittadini, possono far molto per creare o ricreare le condizioni di fiducia e di sostegno necessari all’agire umano. La comunità ecclesiale a sua volta può dare un contributo di attenzione, di sensibilità, di educazione delle coscienze; anche per questo siamo radunati nella preghiera per la nostra città.
Come ci ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate “Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l’adesione, l’agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al ‘‘dare per avere’’, proprio della logica dello scambio, e al ‘‘dare per dovere’’, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato.” ( § 39 )
L’impegno a cui oggi siamo chiamati è quello di lavorare insieme per ricostruire il senso di comunità. Una comunità che si sorregga su pilastri solidi, che trovi sostegno in una rete di relazioni vere e profonde tra individui, sulla solidarietà reciproca, nel riferimento a un comune orizzonte di principi fondamentali per tutti validi, nella ricerca di ciò che è giusto e di ciò che ha senso e dà senso alla nostra vita individuale e sociale.
Sono beni speciali in quanto ciascuno di noi ne è nel contempo sia produttore sia consumatore. Non sono beni rivali, nel senso che il loro “consumo” da parte di un soggetto preclude la possibilità di beneficiarne da parte degli altri. Sono beni che possono essere prodotti solo attraverso un impegno congiunto e contribuiscono alla realizzazione di quello che viene denominato come “capitale sociale” di una comunità. Un capitale che produce frutti nel corso del tempo, frutti della solidarietà che possono essere partecipati da tutti.
Si tratta di costruire, poco alla volta, una comunità benevolente, in cui ciascuno di noi si faccia carico dell’altro, all’interno di una logica di reciprocità e di gratuità in cui l’attenzione sia la prima forma di amore.
La realizzazione di un progetto di comunità non avviene però per legge o per imposizione o decisione da parte di alcuni su altri. Può fondarsi solo sulla base di un impegno condiviso e sul contributo individuale. Richiede una partecipazione aperta e costruttiva, in cui tutti possano far sentire la loro voce, esprimere il loro impegno, giocare il loro ruolo e offrire il loro contributo.
Può sembrare un progetto utopico, troppo vasto e indefinito, difficilmente attuabile e in parte forse lo è. Ma può diventare più facilmente realizzabile se ciascuno guarda a sé come una parte indispensabile di un progetto più generale di comunione e di solidarietà. Quel progetto siamo noi. Sono i nostri giovani, che devono imparare ad alzare lo sguardo e a guardare davanti a loro con fiducia e curiosità, mettendo in gioco il loro impegno, la loro forza e il loro entusiasmo. Sono le famiglie, in particolare le giovani famiglie, che scelgono di realizzare un comune progetto di vita per condividerne le fatiche e apprezzarne la bellezza. Sono le persone anziane, che il loro progetto lo hanno in larga parte realizzato e che attraverso la loro saggezza e la loro esperienza possono aiutarci a costruire il bene comune. Sono le persone vulnerabili, perché ammalate, povere o emarginate, che hanno bisogno della nostra vicinanza ma in questo modo ci aiutano a dar senso alla nostra vita.
San Paolo ci offriva nella lettura proclamata un criterio