Omelia della Quinta domenica di Quaresima

29-03-2020

Quinta domenica di Quaresima

Cripta del Duomo di Pavia – domenica 29 marzo 2020

Cari confratelli nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle che vi unite dalle vostre case,

Nella drammatica Quaresima che stiamo vivendo – abbiamo ancora negli occhi e nel cuore l’immagine impressionante di Papa Francesco che benedice la città di Roma e il mondo con il Santissimo Sacramento in una piazza San Pietro vuota, nel buio della sera che scende, sotto una fitta pioggia – siamo accompagnati dal Vangelo di Giovanni nel quale il Signore, attraverso l’incontro con la donna samaritana, la guarigione del cieco nato e la risurrezione dell’amico Lazzaro, ci parla di un acqua viva per la nostra sete, di una luce che non tramonta per i nostri occhi, di una Vita oltre questa vita terrena.

Anche oggi, vorrei lasciarmi guidare dalla preghiera che ho elevato, a nome di tutti voi, all’inizio della Santa Messa: «Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente; tu che hai manifestato la tua compassione nel pianto di Gesù per l’amico Lazzaro, guarda oggi l’afflizione della Chiesa che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato, e con la forza del tuo Spirito richiamali alla vita nuova».

Al centro della liturgia odierna, c’è l’intenso racconto della risurrezione di Lazzaro, l’ultimo segno compiuto da Cristo nel quarto vangelo, a pochi giorni dagli eventi della Settimana Santa: per l’evangelista in questo segno si annuncia già la Pasqua di Gesù, la sua risurrezione che è rappresenta qualcosa di unico e di molto più potente. Gesù, infatti, risorgendo, non ritorna alla vita di prima, come Lazzaro che ovviamente, sottratto al sepolcro, ha ripreso un’esistenza come la nostra, conclusa con la morte. Cristo, investito dalla potenza dello Spirito Santo, vivrà la sua Pasqua come passaggio definitivo dalla morte alla vita: ma quale vita? La vita piena, la vita-vita, la vita eterna in Dio e di Dio ed è questo il destino ultimo che egli apre e spalanca per noi, sottraendoci al potere della morte!

Nell’orazione iniziale, si riecheggia una parola di Sant’Ireneo, vescovo di Lione, martire alla fine del secondo secolo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente». Ireneo aggiunge: «E la vita dell’uomo è la visione di Dio» («Gloria Dei homo vivens, vita hominis visio Dei»). Per Ireneo la vita dell’uomo è vedere Dio, è partecipare della vita e della gioia di Dio, non è la prosecuzione indefinita di questa esistenza mortale: solo questa vita inesauribile e inimmaginabile, può saziare la sete del cuore, sete che paradossalmente avvertiamo ancora di più in questi giorni in cui, purtroppo, familiari e amici ci lasciano. Solo la vita eterna è l’acqua che zampilla per sempre, promessa da Gesù alla samaritana, è la luce che vince le tenebre, è la risurrezione che sconfigge la morte.

Carissimi fratelli e sorelle, molte famiglie in questo tempo vivono non solo il dolore della morte di un loro caro, ma anche la sofferenza di non aver potuto stare accanto ai loro malati e di non poter nemmeno celebrare la messa di commiato e di suffragio: tutti ci sentiamo smarriti e sgomenti. Abbiamo proprio bisogno di ritornare alla sapienza e alla luce della fede, di abbeverarci delle parole vere del Vangelo, di riconoscere i segni già presenti della vita nuova del Risorto, l’albore della risurrezione che traspare nel volto di amici e testimoni vicino a noi.

Nel racconto di Giovanni, che v’invito a rileggere, sostando e pregando (è il capitolo 11 del quarto vangelo), innanzitutto si svela, ancora una volta, la profonda umanità di Cristo, che è davvero il volto umano del Dio con noi. Pensiamo al suo legame d’affetto e d’amicizia con Lazzaro e le sue sorelle: «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,3.5). E che affezione nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11).

Impressiona sempre la reazione di Cristo davanti al pianto delle sorelle e della gente, è un misto di turbamento e di sdegno, come accade a noi, davanti a certe morti ingiuste: «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,33-35).

Certo, il pianto e il turbamento di Cristo, che partecipa realmente al dolore delle sorelle, come al nostro dolore, non sono l’ultima “parola” del Signore: nel racconto, Gesù si reca al sepolcro, «ancora una volta commosso profondamente» (Gv 11,38) e pronuncia parole autorevoli, veri e propri comandi, fino a richiamare in vita il morto, avvolto dalle bende e dal sudario: «Togliete la pietra!»; «Lazzaro, vieni fuori!»; «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Immaginiamo lo stupore dei presenti: la morte ormai aveva ghermito il corpo di Lazzaro, erano passati già quattro giorni!

Tuttavia, potrebbe nascere in noi una domanda: sì, va bene per Lazzaro, ma per tutti gli altri? Per i nostri cari e amici che in questi giorni stanno lottando tra la vita e la morte? Per chi ci ha lasciato e abbiamo dovuto seppellire senza neanche poterlo vedere, senza poterci abbracciare?

Ecco, carissimi fratelli e sorelle, la “rianimazione” di Lazzaro sarebbe poca cosa, di fronte al dramma del nostro essere mortali, di fronte al vuoto e allo strappo che la morte porta con sé: come dicevo all’inizio, in realtà il miracolo che Cristo compie quel giorno a Betània è solo un segno, un povero segno di qualcosa di molto più grande che si manifesterà e si realizzerà per Gesù e per noi nella sua Pasqua di morte e di risurrezione. Il cuore del Vangelo di oggi sono le parole che Gesù rivolge a Marta e che ci coinvolgono, parole che parlano di vita e di morte in una prospettiva più radicale e profonda. All’umano lamento, quasi un rimprovero di Marta – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» – Gesù risponde con un annuncio: «Tuo fratello risorgerà». Marta, da buona giudea credente, pensa alla risurrezione finale, e a questo punto, c’è la grande rivelazione, che racchiude una promessa e chiede un atto di fede: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11,25-26).

Cristo è la vita, perché è la risurrezione, perché come risorto, spezza il dominio della morte, e dona la vita. Di nuovo: di che vita si tratta? Non della continuazione di questa vita, perché per Gesù, come per noi, resta il passaggio drammatico e traumatico della morte, come all’inizio c’è stato il passaggio drammatico della nascita, del venire alla luce! Qui Cristo parla di un’altra vita, della vita vera, che proviene da Dio e si tratta di una vita futura, oltre la soglia del tempo, e di una vita che già ora nella fede iniziamo a pregustare: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». Come esiste una vita eterna, indistruttibile, che si apre a noi nella fede, così esiste un’altra morte, rispetto alla morte biologica, alla morte come passaggio alla Vita, ed è la morte in eterno, la possibilità tragica dell’eterna separazione da Dio per chi si chiude per sempre a Lui, al suo amore, alla sua vita: «Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno».

Ecco perché, nell’orazione iniziale, abbiamo pregato così: «Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente … guarda oggi l’afflizione della Chiesa che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato, e con la forza del tuo Spirito richiamali alla vita nuova».

La vera morte è il peccato come lontananza da Dio, come sottrarsi al suo abbraccio di Padre!

Carissimi amici, accogliamo la parola di vita e di speranza che oggi ci è consegnata, accogliamo, come proposta e provocazione alla libertà e al cuore di ciascuno di noi, la domanda di Gesù: «Credi questo?». E nell’umiltà della fede, ripetiamo anche noi: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo. Io credo, ma tu aumenta la mia fede!». Amen.