Uomini consacrati e inviati a proclamare l’anno di grazia del Signore

Carissimi confratelli nel sacerdozio, carissime religiose e consacrate, carissimi fedeli,

è con un po’ di tremore e commozione che oggi presiedo, per la prima volta, come vescovo di Pavia, la solenne concelebrazione del Crisma, circondato dal mio presbiterio, in questo giorno che segna l’inizio del nostro sacerdozio: se è vero che tutti i battezzati partecipano del sacerdozio regale di Cristo, secondo le parole appena ascoltate del libro dell’Apocalisse – «egli ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il nostro Dio» (Ap 1,6) – è altrettanto vero che noi presbiteri siamo resi partecipi, in modo unico e singolare, del sacerdozio di Cristo, sommo sacerdote misericordioso e degno di fede, che ci ha chiamati a essere segno vivo della sua presenza di pastore in mezzo al popolo di Dio.
Sì, fratelli amatissimi, questo è il nostro giorno, è il giorno della nostra festa, e perciò è motivo di gioia per tutta la comunità ecclesiale, perché senza il dono del sacerdozio ministeriale, senza il nostro servizio e senza la nostra vita, tutta offerta a Cristo e al Vangelo, mancherebbero i beni essenziali che alimentano e fanno crescere le nostre comunità: il dono dei sacramenti, in particolare dell’Eucaristia e della Penitenza, il dono del Vangelo annunciato e predicato, il dono della cura che come pastori siamo chiamati a vivere, in mezzo a voi e per voi, carissimi fedeli!
Quindi oggi, Giovedì Santo, memoria dell’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio, è giorno di letizia e di festa, reso quest’anno ancora più ricco e luminoso dal Giubileo della misericordia; ma, nello stesso tempo, carissimi amici sacerdoti e voi tutti qui convenuti, non possiamo in questo momento non sentire e non esprimere nella nostra preghiera, lo sgomento e il dolore per tante tragedie che oscurano i nostri giorni. Penso al dramma dei profughi, che da mesi vivono in condizioni disumane, alle porte della nostra Europa, penso all’orrendo fenomeno del terrorismo fondamentalista che pochi giorni fa ha colpito duramente la popolazione di Bruxelles, penso alla morte di quelle tredici giovani universitarie, tra le quali ben sette italiane, nell’incidente del pullman in Spagna. E purtroppo l’elenco potrebbe allungarsi. Proprio le ferite che sentiamo sanguinare nel corpo vivo dell’umanità racchiudono un grido, anche inconsapevole e inespresso, «a Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 1,5), a Cristo, sorgente e ragione della nostra esistenza e del nostro sacerdozio.

Permettete, allora, carissimi fratelli e sorelle, che mi rivolga in modo particolare oggi ai miei preti, a voi confratelli, che ho iniziato a conoscere in questi primi due mesi del mio ministero come vescovo, e con voi vorrei soffermarmi sulle parole così dense di significato, che Gesù applica a se stesso, nella sinagoga di Nazaret, riprendendo, quasi alla lettera, il testo del profeta Isaia, che ci è stato proposto nella prima lettura.

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione» (Lc 4,1,18; Is 61,1): all’origine del nostro essere sacerdoti nel popolo di Dio, c’è l’iniziativa del Signore, che ci ha chiamato e ci ha consacrato, ci ha unto con l’unzione dello Spirito. Realmente, nel giorno della nostra Ordinazione, noi siamo stati investiti dalla potenza dello Spirito, che ci ha segnato, in modo indelebile, imprimendo in noi il carattere sacerdotale. Lo Spirito creatore ha fatto di noi, fragili uomini, ministri che possono agire in persona Christi, in modo particolare quando ripetiamo gesti e parole del Maestro, gesti e parole che Lui, il Vivente, rinnova attraverso di noi: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», «Io ti assolvo».
Rendiamoci conto, con stupore e con umile gratitudine, che un dono immenso ci è stato fatto, non per noi, ma per la Chiesa e per gli uomini, e che questo dono avvolge e coinvolge tutto il nostro essere e agire, tutto il tempo delle nostre giornate, tutte le dimensioni della nostra persona! Non siamo preti part-time! Non solo quando operiamo nel ministero, quando celebriamo, o predichiamo o esercitiamo un servizio nella comunità, ma sempre, in ogni istante, siamo uomini consacrati, anche nei nostri tempi di vita personale, che non può mai essere “vita privata”, nelle ore del nostro riposo, del nostro giusto svago, nelle nostre relazioni e amicizie. La consacrazione, di cui era segno nell’antico Israele il rito dell’unzione, indica una messa a parte, una dedizione completa a Dio, un’appartenenza piena a Cristo, da vivere non come un peso, ma come un legame che ci rende liberi e fiduciosi, certi di non essere mai lasciati a noi stessi.
Nel rito della nostra Ordinazione presbiterale, questa consacrazione è espressa da due segni: l’imposizione delle mani, accompagnata dalla preghiera consacratoria, e il rito esplicativo dell’unzione con il crisma, olio profumato che tra poco consacreremo. Che grande eloquenza hanno questi gesti, ai quali dovremmo ritornare, con il cuore, ogni giorno, soprattutto quando viviamo passaggi difficili o faticosi nel ministero, quando siamo visitati dalla sofferenza o dalla tentazione!
Le mani del Vescovo sono state imposte su di noi, secondo l’antica tradizione apostolica, e quelle mani che si posano sul nostro capo sono il segno delle mani di Cristo, che ci prende a servizio e ci custodisce, come ricordava papa Benedetto XVI nella sua prima omelia per la messa del Crisma: «Al centro c’è il gesto antichissimo dell’imposizione delle mani, col quale Egli ha preso possesso di me dicendomi: “Tu mi appartieni”. Ma con ciò ha anche detto: “Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue”» (Benedetto XVI, Omelia per la Messa del Crisma, 13/04/2006).
Le nostre mani, poi, sono state unte e l’olio è elemento che penetra sotto la pelle, unge e profuma: è davvero il segno dello Spirito che consacra il nostro essere, che fa delle nostre mani delle mani pure, chiamate non a possedere, ma a donare, a servire con tenerezza, mani che possano trasmettere agli altri il tocco divino, nella grazia dei sacramenti, mani che benedicono: lo sappiamo, nelle nostre mani c’è scritta parte della nostra storia e della nostra vita, nel bene e nel male, e allora in questo giorno santo chiediamo che le nostre mani sacerdotali siano sempre più le Sue mani, le mani del Risorto che opera attraverso di noi, «le sue mani sante e venerabili» (Canone romano).

Siamo dunque uomini «rivestiti di debolezza» (Eb 5,2), ma consacrati e chiamati a essere, in modo particolare, gli amici di Cristo: appartiene, perciò, alla verità del nostro sacerdozio, l’essere e il diventare sempre più uomini di Dio, uomini che custodiscono e testimoniano una reale familiarità con il Dio vivente, uomini che incessantemente si convertono, nel quotidiano combattimento spirituale, uomini che si aprono alla misericordia di Dio, accostandoci noi per primi, con frequenza al sacramento della Penitenza. Guardate, carissimi confratelli, che la nostra gente ci desidera così, certo non uomini perfetti, che non sbagliano mai, ma uomini che sono in cammino e che mostrano con chiarezza che la loro vita è bella e lieta, perché vive di questa profonda e personale amicizia con Cristo: da qui nasce anche la nostra amicizia nel presbiterio. Dall’essere discepoli e amici di Gesù, nasce il desiderio di vere amicizie sacerdotali, che siano luogo di fraternità vissuta, di preghiera condivisa, di aiuto reciproco nel ministero. E sapete quanto anch’io, come vostro Vescovo, desideri crescere nell’amicizia con voi, carissimi confratelli, proprio come oggettivo sostegno al mio cammino di santità e di servizio!
Quante volte il nostro Papa Francesco, nel parlare ai sacerdoti e anche ai vescovi, richiama il valore del tempo dato alla preghiera, alla lettura personale della Parola di Dio, all’adorazione silenziosa e prolungata davanti all’Eucaristia. Permettete che citi una risposta che il Santo Padre ha dato incontrando dei bambini, che gli avevano fatto pervenire alcune domande alle quali ha risposto, componendo così un libro L’amore prima del mondo, che davvero può fare del bene a tutti, grandi e piccini, anche a noi presbiteri. Alla domanda di un bambino cinese che gli chiedeva quante volte prega il Papa ogni giorno, Francesco ha risposto così, a braccio, candidamente: «Prego al mattino quando mi sveglio, prendendo il libro di preghiere che usano tutti i sacerdoti, il Breviario; poi prego quando celebro la Messa, quindi recito il rosario. Consiglio di avere sempre il rosario con voi. Io lo tengo nella tasca. Nel pomeriggio adorazione del Santissimo Sacramento: questi sono i momenti formali. Ma mi piace anche pregare per le persone che incontro» (da G. Biccini, «Domande difficili» in Osservatore Romano, 26 febbraio 2016).
Direte: cose semplici! Certo, ma il tessuto della nostra vita di preti e della nostra preghiera è fatto di queste cose semplici e se le viviamo con il cuore, ci fanno crescere e ci fanno stare in piedi, anche nelle ore più buie e più tormentate dell’esistenza.

Solo così, carissimi confratelli, possiamo vivere la seconda parola con cui Gesù, riecheggiando il profeta, definisce la sua missione: «[lo Spirito] mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18.19). Lo Spirito ci consacra e ci manda, ci invia a evangelizzare, a recare il lieto annuncio della misericordia e della salvezza, che risplende in Gesù, e ci invia ai poveri: per Luca i poveri hanno tanti volti, perché nel suo vangelo i poveri sono gli umili e i semplici, i malati e i sofferenti, gli emarginati come i bambini e le donne, i peccatori, ben tenuti a distanza, i perduti e gli umiliati dall’ingiustizia dei potenti.
Sì, carissimi fratelli, siamo mandati a proclamare il giubileo della misericordia, l’anno di grazia del Signore, ai nostri fratelli e sorelle, che ci sono affidati, e che incontriamo nelle nostre città, nelle nostre case, nei nostri ambienti di vita. E anche per noi i poveri hanno volti differenti, e non occorre essere “preti di strada” per servirli e incontrarli, basta essere preti secondo il cuore di Cristo! Possono essere i nostri fratelli senza casa e senza lavoro, che bussano alle nostre mense o che silenziosi, abitano le nostre strade e le nostre stazioni, possono essere gli emigranti e i profughi che arrivano tra noi, da situazione di inimmaginabile miseria e violenza, possono essere le famiglie delle nostre parrocchie che faticano ad arrivare alla fine del mese, o che, pur avendo tutto, portano ferite profonde e solitudini nascoste, possono essere i nostri giovani e adolescenti, che frequentano l’università, le scuole o i nostri oratori, e spesso vivono schiacciati sull’istante, consumando esperienze, emozioni e affetti, senza un significato chiaro per cui vivere, senza un ideale che appassioni il cuore, possono essere i «prigionieri» del gioco, del vizio, o i nostri fratelli carcerati, possono essere i malati che andiamo a visitare nelle case e negli ospedali, gli anziani talvolta abbandonati in strutture di accoglienza o soli nelle loro abitazioni.
A tutti questi nostri fratelli e sorelle siamo debitori dell’unica ricchezza che abbiamo, che è il vangelo del Signore Gesù, e dovremmo davvero sentirci inviati a loro, desiderosi di essere, pur con i nostri limiti umani e insieme alle nostre comunità, segno trasparente della misericordia di Dio e della tenerezza tenace e fedele di Cristo. Per questo motivo, sentiamo in noi ardere e bruciare uno struggimento per la felicità autentica dei nostri fratelli, e la tensione viva a non offuscare la bellezza di Cristo e del Vangelo, con i nostri peccati e con i nostri compromessi, con le nostre scelte di vita, talvolta più che discutibili, che danno scandalo ai piccoli e ai semplici.

Ecco, carissimi confratelli, la grazia del Giubileo, che stiamo vivendo con le nostre comunità, sia grazia di conversione, di rinnovato desiderio di santità: una vita santa è una vita che appartiene a Cristo e che, per la forza dello Spirito, diviene riflesso del suo amore e della sua purezza. Custodiamo e viviamo il dono del nostro sacerdozio, sentiamoci davvero consacrati e inviati al nostro popolo, e testimoniamo la gioia di essere suoi amici, da lui continuamente perdonati e accolti: alla Vergine Maria, Madre tenerissima, Mater mea, Fiducia mea, affidiamo ogni giorno la nostra vita e il nostro ministero, per il bene del popolo che ci è affidato. Amen!