Il 29 giugno ricorre il 60° anniversario di sacerdozio di mons. Giovanni Volta

Conobbi mons. Volta nel ’59 sui banchi del ginnasio e, come per molti miei compagni, fu quella un’esperienza fondamentale non solo sul piano religioso, ma anche su quello culturale e umano.
Nella sua ora c’era un silenzio attento quale gli altri insegnanti non riuscivano da noi ad ottenere nemmeno con la minaccia del voto; il quaderno degli appunti di religione era il più ordinato anche tra i ragazzi non credenti, e infatti il migliore era quello di un nostro compagno allora attivista della F.G.C.I. (Federazione Giovani Comunisti Italiani)
 
Non saprei dire attraverso quale metodo didattico ottenesse tali risultati, né meno che – almeno a livello cosciente – ne avesse uno. Sta di fatto che anni dopo, quando lessi in Fromm la distinzione tra “avere autorità” e “essere autorevole” il pensiero corse alle sue lezioni.
Non ci trattava né con aria di superiorità, né con la bonaria condiscendenza che spesso gli adulti usano verso i ragazzi, ma col rispetto che portava alla persona di ciascuno, ed esigeva uguale rispetto da parte nostra. Notavamo come usasse la stessa sicura e franca cordialità con alunni e colleghi, col preside e coi bidelli, senza confondere i ruoli ma senza che i ruoli avessero il sopravvento sui rapporti interpersonali.
Non l’abbiamo mai sorpreso bugiardo od opportunista.: se diceva qualcosa era perché la pensava davvero, altrimenti preferiva tacere. Qualche volta provavamo a fargli qualche domanda ‘cattiva’: “T’al sé, bisogna vedere,… le circostanze, il contesto, bisogna distinguere …” Tirava su le spalle, una bella risata e non c’era più verso di cavargli una parola di bocca. Cambiava argomento.
 
Quando spiegava non aveva mai fretta. Preferiva impiegare più tempo che presentarci delle mezze verità, convinto com’era della intelligibilità del reale e delle nostre capacità di capire. A volte accadeva che qualcuno facesse una domanda sciocca o un’obiezione priva di fondamento: la sua risposta non metteva mai l’alunno a disagio perché da tutto sapeva trarre occasione per ulteriori considerazioni interessanti. Nessuno con lui si sentiva stupido né trattato dall’alto in basso. Se qualcuno cercava di prenderlo in contropiede – cosa che succedeva di rado – don Volta ne usciva sempre in odo elegante e misurato: rispondeva pacatamente e e lanciava una breve stoccata – spesso un ‘proverbio’ – arguta ma non cattiva. Non voleva mai che qualcuno perdesse la faccia, convinto com’era che bisogna vincere ma non stravincere e che la strategia migliore era la simpatia.
 
Le sue lezioni non erano facili né trattavano argomenti di moda e questo, paradossalmente, ci affascinava. Ci sentivamo considerati adulti, capaci di affrontare i nodo cruciali in modo serio, non annacquato per una facile indulgenza. Senso della vita, esistenza di Dio, presenza del male nel mondo, fede e ragione, fede e scienza, teoria e prassi, analisi della domanda religiosa nelle diverse epoche storiche e nella cultura contemporanea … Don Volta ci spiegava gli impliciti presupposti di tante opinioni correnti, ci guidava alla scoperta di implicanze e deduzioni insospettabili, ci aiutava a capire non solo il senso di Dio, ma anche quello dell’uomo. Con lui imparavamo il gusto della ricerca razionale, l’intima soddisfazione di spingere la ragione fin dove essa può giungere e di accogliere la rivelazione quale sovrabbondante risposta a quegli interrogativi ultimi che sentivamo anche nostri. Eravamo tesi nel seguire l’incalzare stringente delle argomentazioni e – là dove i problemi toccavano più da vicino le convinzioni personali – il dibattito e il contradditorio si facevano serrati.
 
Talora la campana suonava in un momento cruciale: concludere la discussione la settimana successiva era inaccettabile alla nostra impazienza giovanile. Accadeva allora che ci si desse appuntamento nel primo pomeriggio a casa di una di noi: soggiorno spazioso, d’inverno fuoco scoppiettante nel camino e madre ospitale. Venivano anche ragazzi di altre classi, alcuni dichiaratamente non credenti o di diversa confessione religiosa: ebrea o protestante. Era normale che le seggiole della casa non bastassero e che ci sedessimo a semicerchio per terra intorno al camino. Da un problema ne nascevano cento altri: l’unità del sapere ci appariva allora cosa ‘evidente’ e non di rado ci lasciavamo che era già buio, il viso bruciante per l’impegno della ricerca e il riverbero della fiamma nell’aria fredda della sera. Con buona pace per le lezioni del giorno dopo.
Il gruppo crebbe a tal punto che finimmo per trasferirci nella saletta di Sant’Orsola. Che si fosse in classe, a casa di qualcuno o in S. Orsola la situazione non cambiava molto: la stessa attenzione, lo stesso reciproco rispetto, più o meno gli stessi temi affrontati.
 
No banalizzava mai né le nostre difficoltà, né le ragioni dell’ateismo contemporaneo. Molti di noi lessero Feuerbach, Nietzsche e Camus su sua precisa indicazione, dato che preferiva che conoscessimo i testi di prima mano. Non accettava il pressapochismo del sentito dire, ma al rigore dell’informazione ci insegnava far seguire il rigore della valutazione critica.
Con don Volta la cultura non era nozionismo accademico né gioco dialettico, era un modo d’essere e di sentire, un elemento costitutivo della nostra personalità che egli alimentava proponendoci la lettura di testi illuminanti: dalle Confessioni di Agostino ai Fratelli Karamazov, dalla Vita Intellettuale di Sertillanges a Fede e scienza di Marcozzi, ai Grandi Amici di Raissa Maritain. Il sapere assumeva per noi una rilevanza esistenziale,alla pari con i nostri problemi personali di adolescenti.
 
Accadeva così, quasi naturalmente, che molti di noi desiderassero proseguire il discorso in privato. Era sempre disponibile ad accoglierci in Seminario. Con noi non misurava mai il tempo: pareva non avesse nessun altro impegno. Non dava consigli, non ci risolveva i problemi,non insegnava ricette e soprattutto non ci faceva sentire giudicati. Ci aiutava a capire noi stessi, ad individuare da noi come e perché avessimo eventualmente sbagliato e quale fosse la via da seguire. Soprattutto ci insegnava a sdrammatizzare le situazioni a misurare le nostre forze e a fare i conti con il concreto della realtà.
Il suo buon senso contadino, la sua solidità e il suo equilibrio sono stati per molti suoi alunni un aiuto altrettanto valido quanto la profondità e la ricchezza della sua fede e della sua cultura. Dal suo vivo esempio capivamo che, come la fede non vanifica la cultura ma ne costituisce una preziosa chiave di lettura, così – a livello personale – la grazia non sminuisce la natura, anzi la potenzia.
 
Molti di noi hanno mantenuto i contatti con lui anche negli anni successivi, quasi tutti i matrimoni religiosi della mia classe li ha celebrati lui; la messa delle 10 in S. Barnaba era frequentata da parecchi suoi ex-alunni, con i bambini che alla fine gli correvano incontro fin dietro all’altare.
 
Nella Chiesa Mater et Magistra mons. Volta è sempre stato maestro e padre. La sua consacrazione episcopale ha sancito e portato a compimento un carisma anteriore.
 
Anna Orlandi Pincella